Dal NREL le finestre solari che producono energia cambiando colore

Le nuove finestre intelligenti statunitensi si colorano in risposta al sole mentre producono energia elettrica

Un nuovo capitolo per la tecnologia delle finestre solari

(Rinnovabili.it) – L’ultima novità in campo delle smart window, dispositivi intelligenti in grado di regalare qualche funzione in più ai tradizionali infissi, arriva dagli Stati Uniti. A metterla a punto sono stati gli scienziati del Laboratorio Nazionale delle Energie Rinnovabili (NREL), una delle braccia di ricerca del Dipartimento dell’Energia stelle e striscie. Il nuovo lavoro si è focalizzato sulle finestre solari termocromiche, sistemi commutabili che rispondono dinamicamente alla luce solare: quando i raggi riscaldano il vetro, questo si colora producendo elettricità ad alta efficienza. .

 

La vera novità della ricerca consiste soprattutto nei materiali impiegati per realizzare questo tipo di smart window. Il team, guidato dallo scienziato Lance Wheeler, ha impiegato un complesso di perovskiti- metilammina e nanotubi di carbonio a parete singola: la ricetta ha permesso di creare uno strato assorbitore capace di passare dallo stato trasparente (trasmittanza visibile del 68%) a uno colorato (meno del 3% di trasmittanza visibile).

 

Il gioco della trasmittanza è dovuto alle molecole di metilammina che “entrano ed escono” dallo strato assorbitore in risposta alla radiazione luminosa. Quando la finestra si colora, un processo che ha richiesto circa 3 minuti di illuminazione durante il test, produce elettricità.

Cosa cambia rispetto agli esperimenti e i prodotti passati? Che le attuali tecnologie per le finestre solari sono statiche, il che significa che sono progettate per sfruttare una frazione dei raggi solari senza sacrificare la trasmissione della luce visibile. “Esiste un compromesso fondamentale tra una buona finestra e una buona cella solare”, spiega Wheeler. “Questa tecnologia lo scavalca: abbiamo una buona cella solare quando c’è un sacco di sole e abbiamo una buona finestra quando non ce n’è”.

Il documento di proof-of-concept pubblicato su Nature Communications riporta un’efficienza di conversione dell’energia solare dell’11,3 percento. “Ci sono tecnologie termocromiche là fuori – aggiungono gli scienziati – ma nulla che converta effettivamente quell’energia in energia elettrica”. Gli scienziati stanno sviluppando una strategia di mercato per portare il loro SwitchGlaze, questo il nome con cui sono state battezzate le finestre solari, in commercio.

(fone: Rinnovabili.it)

Fondi di caffè come carburante? A Londra si può

Dei mille usi dei fondi di caffè abbiamo parlato più volte, ma non ne abbiamo considerato uno che invece cambierà la vita dei pendolari londinesi: fondi di caffè come carburante per gli autobus a due piani.

 

I famosi double-decker rossi, simbolo del trasporto pubblico inglese, da lunedì scorso sono infatti spinti da bio carburanti ricavati da fondi di caffè.

La Bio-bean, una startup britannica, è infatti in collaborazione con il colosso multinazionale Royal Dutch Shell, per produrre il biocarburante, mescolando gli scarti di caffè delle grandi caffetterie londinesi con il mix di diesel e biocombustibile che li fa muovere.

I fondi vengono essiccati e ne viene estratto l’olio, da mescolare al biocarburante B20, per ridurre del 10-15% le emissioni di carbonio.

Dalla startup dicono di aver prodotto già 6mila litri di carburante, sufficienti per far funzionare un autobus per un anno; un modo intelligente per sfruttare le 200mila tonnellate di scarti di caffè prodotte ogni anno dai londinesi.

Si tratta del primo passo nella sperimentazione di una serie di progetti per rendere più green la città, utilizzando scarti alimentari nella produzione di combustibile. “È un grande esempio di ciò che si può fare quando cominciamo a re-immaginare i rifiuti come una risorsa da sfruttare” ha dichiarato Arthur Kay, il ventisettenne fondatore di Bio-Bean.

Un’idea che se applicata in Italia frutterebbe ancor di più, considerato l’enorme quantitativo di caffè consumato nel nostro Paese, ben 39 miliardi di tazze di caffè all’anno.

(fonte: Ecosost.it)

Da acqua ossigenata e lievito di birra il bio-cemento superisolante

I ricercatori della divisione “Bioenergie” e del laboratorio “Biosicurezza” dell’ENEA hanno brevettato un nuovo bio-cemento con elevate proprietà di isolamento termico e acustico e di resistenza al fuoco

Nasce in Italia, e più precisamente nei laboratori Enea, il nuovo bio-cemento superisolanteche mette assieme attenzione ambientale e risparmio energetico. I “genitori” dell’innovativo brevetto sono i ricercatori della Divisione “Bioenergie, Bioraffinerie e Chimica Verde” (Centro Ricerche Trisaia) e del laboratorio “Biosicurezza e Stima del rischio” (Centro Ricerche Casaccia) dell’ente nazionale.

Unendo le rispettive competenze gli scienziati hanno creato una versione sostenibile del cosiddettocalcestruzzo aerato autoclavato (in inglese Autoclaved Aerated Concrete – AAC), materiale per molti versi superiore al tradizionale laterizio. L’ACC, infatti, è dotato di elevato potere coibentante e di isolamento acustico. Inoltre, grazie al particolare struttura porosa, è molto più leggero della concorrenza, senza perdere di resistenza alla compressione. Caratteristiche che ne fanno un ottimo prodotto edilizio.

Ottimo, ma non troppo sostenibile. Per creare i pori interni, è normalmente impiegata la polvere di alluminio, un agente aerante molto infiammabile che richiede stringenti misure di sicurezza degli impianti;  il suo compito è quello di attivare il processo di “lievitazione” dell’impasto cementizio, reagendo con gli altri materiali e liberando bolle di idrogeno.

È esattamente a questo punto che sono intervenuti i ricercatori Enea per creare un’alternativa più sicura e verde. Il processo realizzativo del nuovo bio-cemento (BAAC -Bio Aerated Autoclavated Concrete) sostituisce la polvere di alluminio con lievito di birra miscelato ad acqua ossigenata. Il risultato centra in pieno l’obiettivo: il prodotto finale è tecnicamente molto leggero, per la grande quantità di bolle d’aria al suo interno, pur mantenendo le caratteristiche meccaniche e fisiche del materiale cementizio: il bio-cemento è dotato di elevate proprietà di isolamento termico e acustico e di resistenza al fuoco.

 

“Questa innovazione di processo è ancora di nicchia, ma presenta grandi potenzialità; infatti, le nostre attività di sperimentazione hanno suscitato l’interesse dei soggetti coinvolti nella filiera produttiva del cemento cellulare che hanno voluto contribuire fornendoci gratuitamente le materie prime”, spiega Piero De Faziodella Divisione “Bioenergie, Bioraffinerie e Chimica Verde” presso il Centro Ricerche ENEA della Trisaia. “La formulazione di questa innovativa versione del cemento aerato autoclavato è stata possibile anche grazie alla collaborazione tra le competenze di chimica verde dei ricercatori di Trisaia e quelle dei sistemi in vitro ed in vivo dei ricercatori di Casaccia”, aggiunge Giorgio Leter del Laboratorio “Biosicurezza e Stima del rischio” presso il Centro Ricerche ENEA della Casaccia.

I vantaggi economici e di sostenibilità ambientale derivano dall’abbattimento delle spese energetiche e dei costi indiretti connessi alla gestione dell’impianto ai fini della sicurezza e dalla riduzione del numero dei componenti “addizionali” come la calce e il gesso.

(fonte: Rinnovabili.it)

FreshBox: il frigo a energia solare per salvare l’Africa

L’Africa è un continente pieno di problemi, che vanno dalla mortalità infantile alla siccità; dalle guerre alle malattie. Problemi che non sono di facile soluzione, anche se ci si sta impegnando sempre di più per il trasporto di medicine, la costruzione di nuovi pozzi e per un miglioramento della vita delle popolazioni più colpite.

Uno dei problemi a cui si sta cercando di provvedere è quello della conservazione del ciboSpesso il 50% della frutta e della verdura e il 20% dei cereali vanno persi, in mancanza di adeguati sistemi di stoccaggio e conservazione sotto il sole bollente dei paesi africani, i quali spesso mancano anche di energia elettrica. Uno spreco che non è accettabile in un continente in cui, solo fra Nigeria, Sud Sudan e Somalia ci sono 20 milioni di persone che muoiono di fame.

Per questo il giovane informatico John Mbindyo ha avuto l’idea di creare una cella frigorifera a energia solere che fornisce un impianto di stoccaggio per venditori e agricoltori. Si chiama FreshBox e può allungare la vita dei prodotti agricoli fino a 21 giorni conservandoli a una temperatura fra gli 0 e i 15 °C. Il costo? 0.65€ al giorno.

Il suo progetto è fase di sperimentazione in 10 diversi negozi di Nairobi e 4 fattorie di Kiambu County. Molte delle persone contattate da Mbindyo si sono dette pronte ad acquistare il prodotto, perciò egli dice “Spero di espandere la nostra capacità produttiva e di avere più unità a Nairobi per attirare più clienti.”

Sono queste invenzioni su cui bisogna investire, per risolvere almeno uno dei problemi dell’Africa.

(fonte: ecosost.it)

Auto a idrogeno: i serbatoi di domani si faranno riciclando le sigarette

Uno studio inglese svela le insospettabili potenzialità dei mozziconi: perfetti per produrre materiali con cui immagazzinare idrogeno. Un importante passo in avanti per un futuro senza combustibili fossili

OGNI anno nel mondo vengono fumate più di un bilione di sigarette. E quello che si lasciano alle spalle, una volta spente, sono circa 800 mila tonnellate di mozziconi, rifiuti non degradabili che inquinano il suolo e le acque rilasciando nicotina e molte altre sostanze tossiche. Ma quella che oggi è un’autentica emergenza ambientale, in futuro potrebbe trasformarsi in una preziosa risorsa: materia prima per produrre sistemi di stoccaggio dell’idrogeno, da sfruttare per costruire auto e altre tecnologie a impatto zero. A suggerirlo è una ricerca dell’Università di Nottingham, pubblicata sulle pagine della rivista Energy and Environmental Science.

Per capire l’importanza della ricerca bisogna ricordare che l’idrogeno è una delle grandi promesse nel campo dell’energia sostenibile. Può infatti essere bruciato per produrre calore esattamente come un combustibile fossile, o essere immagazzinato in celle di carburante per ottenere elettricità green, producendo semplice acqua come prodotto di scarto. In uno scenario ideale alimenterebbe mezzi di trasporto e impianti di riscaldamento, e verrebbe sfruttato anche l’immagazzinamento dell’energia in eccesso da fonti rinnovabili, come il solare o l’eolico. Garantendo una resa energetica maggiore, e un impatto ambientale molto limitato rispetto a quello dell’economia attuale basata sui combustibili fossili.

Prima di arrivare a una vera economia dell’idrogeno però ci sono diversi problemi ancora da superare, non ultimo quello dello stoccaggio: a parità di volume la benzina ha infatti un rendimento mille volte maggiore. Questo significa che servirebbe un serbatoio mille volte più ampio per garantire ad un’automobile l’autonomia attuale. Sempre – ovviamente – se si utilizzassero serbatoi tradizionali. “Attualmente esistono due modi principali per immagazzinare l’idrogeno – spiega Stephen McPhail, esperto di energie rinnovabili dell’Enea. “Può essere mantenuto allo stato gassoso, ma a pressioni molto alte che oggi raggiungono anche le 700 atmosfere; oppure stoccato all’interno di materiali solidi, come gli idruri di metalli, in cui le molecole di idrogeno si collocano all’interno degli interstizi della struttura cristallina del materiale”.

La prima opzione è quella utilizzata attualmente nelle macchine ad idrogeno, e con le tecnologie più recenti permette ad alcuni modelli di ottenere un’autonomia di viaggio di circa 500 chilometri – simile cioè a quella delle auto a benzina – utilizzando bombole delle dimensioni di un normale serbatoio. Per utilizzi su scala più piccola, come l’alimentazione di biciclette o altri piccoli apparecchi elettrici, o su scala molto maggiore, come il recupero dell’energia in eccesso prodotta da impianti eolici, è più utile invece lo stoccaggio in forma solida. “Quelli esistenti sono sistemi molto sicuri, ma attualmente sono limitati dalla possibilità di immagazzinare una quantità di idrogeno pari al 5% del peso totale del materiale – sottolinea McPhail – è per questo che si continuano a studiare nuovi materiali e tecniche per ottimizzare questi processi”.

Ed è proprio qui che si inserisce il nuovo studio. I ricercatori dell’Università di Nottingham hanno infatti sperimentato una tecnica definita carbonizzazione idrotermale, un processo di smaltimento dei rifiuti organici che sfrutta solo acqua e calore per trasformarli in carbonio. Tra i materiali di scarto utilizzati nei loro esperimenti gli scienziati hanno deciso di utilizzare anche i mozziconi di sigarette, ottenendo un carbone attivo estremamente poroso, che si è rivelato perfetto per l’immagazzinamento dell’idrogeno: il più efficiente materiale a base di carbonio ottenuto fino ad oggi, almeno in termini di capacità di stoccaggio.

Ovviamente, la strada è ancora lunga prima di pensare di utilizzare realmente il nuovo materiale. Non di meno, i suoi autori scopritori assicurano che si tratta già di un traguardo estremamente importante. “Il nostro lavoro ha dato due risultati molto interessanti”, rivendica Robert Mokaya, professore di chimica dei materiali dell’Università di Nottingham e coordinatore della ricerca. “Da un lato,

indica che il riciclo potrebbe risolvere il problema dei mozziconi di sigaretta, attualmente impossibili da smaltire. E dall’altro ci ha permesso di ottenere un tipo di carbone attivo che ha settato un nuovo record nel campo dello stoccaggio di idrogeno, almeno tra i materiali porosi”.

(fonte: repubblica.it)

Spagna: nuove facciate ventilate intelligenti per tagliare i consumi

I ricercatori della School of Engineering della UPM hanno sviluppato una nuova facciata ventilata con controllo dei flussi d’aria

Arriva dall’Universidad Politécnica de Madrid l’ultima innovazione in tema di chiusure verticali edilizie. Il campo d’applicazione è quello delle facciate ventilate, elementi multistrato in  favoriscono la traspirabilità dell’edificio, permettendo di ridurre la dispersione di calore in inverno ed evitarne l’accumulo in estate. Gli ingegneri spagnoli hanno messo a punto progettato un nuovo sistema che riduce guadagni e perdite energetiche e di conseguenza i consumi degli abitanti.

Attualmente, i costi della climatizzazione rappresentano tra il 40% e il 65% delle spese totali degli edifici. In un clima mediterraneo-continentale come quello che esiste nelle zone interne della Spagna o in Sicilia centrale, nei mesi freddi le abitazioni soffrono di perdite di energia attraverso le facciate nord ed est, come conseguenza delle basse temperature. Di contro, in estate, l’edificio guadagna calore attraverso le facciate sud e ovest a causa della radiazione solare. In entrambi i casi, per garantire il confort interno è necessario un sistema di climatizzazione  che compensi guadagni e le perdite di energia attraverso l’involucro edilizio.

 

facciate ventilateOggi le facciate ventilate convenzionali sono composte quattro strati funzionali, così ordinati dall’interno verso l’esterno): uno strato isolante continuo, una camera di ventilazione, una struttura di sostegno e un rivestimento esterno.

La novità della proposta spagnolo consiste nell’introdurre una seconda camera tra quella esistente e lo strato isolante, collegando entrambe le intercapedini di ventilazione nella parte inferiore della facciata. Il sistema è dotato, inoltre, di un elemento che regola il flusso d’aria nelle camere, a seconda del gradiente della temperatura esistente tra l’interno e l’esterno dell’edificio.

 

I risultati dei primi test effettuati sulle nuove facciate ventilate mostrano che il sistema proposto consente un aumento dell’efficienza del 38 per cento nel periodo estivo e addirittura del 333 per cento nel periodo invernale rispetto ad una facciata ventilata convenzionale. La semplicità di questa soluzione – già brevettata dai suoi inventori – permette di applicarla sia sui nuovi edifici che su quelli vecchi in fase di restaurazione. Il lavoro è stato recentemente pubblicato sulla rivista Energy and Buildings.

 

(fonte: rinnovabili.it)

 

Un filtro “solare” per distruggere le microplastiche che inquinano l’acqua

Dalla Svezia arriva una nuova membrana fotocatalitica da aggiungere ai sistemi filtranti delle acque reflue, per eliminare i frammenti di plastica

Sfruttare le radiazioni del sole per aiutare a liberare gli oceani dalla presenza delle microplastiche: questa una delle innovazioni tecnologiche create dal progetto europeo CLAIM. A realizzare il sistema è stato un gruppo di scienziati del KTH Royal Institute of Technology, in Svezia, che a partire da questo mese testerà la sua invenzione negli impianti locali di trattamento delle acque reflue.

L’inquinamento da microplastiche conosce pochi confini. Queste minuscole particelle polimeriche sono presenti in quasi tutti i corpi idrici del pianeta, al punto da essere state individuate persino in sperduti laghi della Mongolia o in sedimentati sottomarini. L’ONU stima che ogni chilometro quadrato di oceano contenga circa 63 mila frammenti plastici che, non solo contaminano l’ambiente, ma entrano anche a far parte della dieta quotidiana degli animali. “Queste materie plastiche iniziano così ad accumularsi nella catena alimentare, passando da specie a specie, con conseguenze negative dirette anche per la popolazione umana”, spiega Joydeep Dutta, ricercatore del KTH Royal Institute of Technology.

 

L’esposizione alla luce solare può degradare la plastica in elementi innocui ma questo processo, chiamato ossidazione fotocatalitica, estremamente lento, e anche in caso di particelle piccolissime può richiedere anni. Gli scienziati dell’ateneo svedese hanno cercato un modo per accelerare il tutto. Come? Creando una nuova membrana fotocatalitica da aggiungere ai sistemi filtranti delle acque reflue. Il sistema è costituito da nanofili rivestiti in un materiale semiconduttore che può assorbire la luce visibile e utilizzarla per “abbattere” le particelle di plastica.

 

L’ossidazione fotocatalitica attraverso semiconduttori come ossido di zinco o l’ossido di titanio è già da tempo impiegata per convertire inquinanti volatili o oli in elementi innocui come l’acqua e anidride carbonica. Il passaggio alle microplastiche sembra essere, dunque, il logico step successivo.

Le membrane trattengono questi minuscoli inquinanti mentre la luce del sole attiva il focatalizzatore. “Il semiconduttore è in grado di eccitare le molecole del materiale e avviare questo processo di degradazione utilizzando il 40% della radiazione solare”, spiega Dutta. E come risultato, anche in questo caso si ottiene solo acqua e anidride carbonica. L’idea è di istallare questi speciali filtri solari – i test reali inizieranno a breve – sia a livello domestico che negli impianti di trattamento industriale dei reflui. In aggiunta il progetto CLAIM  (Cleaning Litter by Developing and Applying Innovative Methods in European Sea) sta sviluppando anche barriere flottanti da collocare alle bocche dei fiumi per catturare i rifiuti di plastica più grandi e un sistema di controllo navale per misurare gli inquinanti polimerici presenti nell’Oceano.

(rinnovabili.it)

Una nuova lega aumenta leggerezza e capacità delle batterie al litio

Scoperta una famiglia di materiali anodici in grado di raddoppiare la capacità di carica degli elettrodi della batteria agli ioni di litio

Il nuovo anodo stagno-alluminio (a destra) e il tipico anodo in rame-grafite (a sinistra).

 

Il presente tecnologico chiede molto alle attuali batterie al litio. Pretese destinate ad aumentare man mano che le auto elettriche e l’accumulo stazionario si faranno spazio nel mercato. Riuscire a perfezionare ed ottimizzare questa tecnologia è divenuto per molti una vera e propria necessità. La ricerca sta tentando di conciliare diverse esigenze: da una parte è necessario rendere questi dispositivi più economici, dall’altro si vuole aumentarne le prestazioni, che significa essenzialmente renderli più leggeri e compatti ma in grado di accumulare quantitativi maggiori di elettricità.

Per raggiungere tutti questi obiettivi in un colpo solo, all’Università del Texas, un gruppo di ingegneri sta testando una nuova lega metallica con cui realizzare gli elettrodi delle batterie.

 

Ma per capire i vantaggi del nuovo materiale, è necessario fare qualche passo indietro. La produzione tradizionale di batterie al litio impiega lamine di rame rivestite da polvere di grafite per realizzare gli anodi. È un processo di produzione complicato e laborioso a cui, da anni, si sta cercando un’alternativa. Ma i nuovi materiali sperimentati sino ad ora si sono sempre rivelati o più costosi o dotati di minor capacità di stoccaggio.

 

Lo scienziato dell’ateneo texano Karl Kreder e la sua squadra sono stati in grado di trovare la quadratura del cerchio grazie ad un approccio di produzione degli anodi semplificato. I ricercatori hanno impiegato una nuova lega di stagno-alluminio, chiamata lega eutettica interdigitata (Eutectic Interdigitated -IdEA), che consente di risparmiare tempo e materiali realizzando un elettrodo attraverso solo due semplici passaggi. Spiega Kreder “L’alluminio crea una matrice conduttiva in cui viene mantenuta la stagnola”, fornisce in pratica “la struttura e la conduzione elettrica”, mentre la stagnola, ovviamente nano strutturata, si lega in maniera reversibile con litio duranti i cicli di carica-scarica.

L’IdEA risulta essere spesso solo un quarto rispetto al materiale anodico tradizionale, pesando la metà. Il team lo ha testato in batterie al litio complete, scoprendo di poter aumentare di due volte la capacità di accumulo di un tipico anodo di rame-grafite.

(fonte: Rinnovabili.it)

Il MIT rafforza il calcestruzzo con la plastica riciclata

L’aggiunta alla miscela di piccoli pezzi di PET precedentemente trattati potrebbe ridurre le emissioni di carbonio dell’industria del cemento

Il contributo della plastica riciclata all’edilizia del futuro

Quanti oggetti si possono realizzare con la plastica riciclata? Dagli arredi ai vestiti, dagli occhiali agli interni auto, dalle pavimentazioni alle tubature, è lunga la lista prodotti sotto cui oggi possono rinascere i rifiuti polimerici. Al Massachusetts Institute (MIT) vogliono aggiungere, però, un’altra voce: il calcestruzzo. Secondo un nuovo studio dell’Ateneo americano, infatti, la plastica riciclata delle bottiglie usate potrebbe portare alla produzione di un cemento più resistente ed ecologico.

Gli ingegneri Carolyn Schaefer e Michael Ortega, insieme ad alcuni colleghi, hanno scoperto che l’aggiunta del PET, opportunamente trattato, alla miscela cementizia permette di ottenere un prodotto finale che è fino al 20% più forte del calcestruzzo tradizionale. “C’è un’enorme quantità di plastica che arriva in discarica ogni anno”, spiega Michael Short, professore aggiunto presso il Dipartimento di Scienze Nucleari e Ingegneria del MIT. “La nostra tecnologia tira fuori la plastica dalla discarica, la blocca nel calcestruzzo, usando in tal modo meno cemento e rilasciando quindi meno emissioni”.

Non si tratta del primo esperimento che vede plastica riciclata aggiunta alla miscela cementizia. Tuttavia gli esperimenti condotti finora aveva indebolito il prodotto, anziché rafforzarlo. Gli studenti hanno dovuto trovare un modo per risolvere il problema e la soluzione si è presentata grazie ai raggi gamma. Il team ha scoperto, infatti, che esponendo fiocchi di PET (polietilene tereftalato) a piccole dosi di radiazioni gamma è possibile cambiare la struttura cristallina del polimero rendendola più rigida, dura e resistente.

Gli studenti hanno ottenuto la plastica riciclata da un impianto locale, hanno ripulito manualmente i fiocchi per rimuovere pezzi di metallo e altri detriti, quindi hanno portato i campioni in uno dei laboratori sotterranei del MIT, dove è installato un irradiatore cobalto-60, bombardandoli con una piccola dose di raggi gamma.  I ficchi sono stati quindi ridotti in polvere e aggiunti al cemento. Il prodotto finale, come chiarisce Short, non presenta rischi dal momento che “non c’è radioattività residua”. “Sostituire anche una piccola quantità di calcestruzzo con la plastica così irradiata potrebbe contribuire a ridurre l’impronta globale di carbonio dell’industria del cemento”.

(fonte: Rinnovabili.it)

Battesimo dell’acqua per Seabin, l’aspirapolvere dei rifiuti marini

Nasce dall’idea di due giovani surfisti l’ingegnoso cestino che mangia l’inquinamento marino. La prima installazione, nel porto britannico di Portsmouth

seabin

 

Non è un segreto che gli oceani siano pieni di spazzatura galleggiante. Trovare acque incontaminate è oggi praticamente impossibile: trasportati dalle correnti anche su lunghe distanze, i rifiuti marini sono riusciti a intaccare anche le profondità dell’Oceano Artico. E se la prevenzione fa ancora cilecca, i rimedi a valle del problema, al contrario, spopolano. Uno di questi è Seabin (Seabin project), il cestino mangia rifiuti inventato da una coppia surfisti australiani, Andrew Turton e Pete Ceglinski.

Il dispositivo si comporta come una sorta di aspirapolvere galleggiante: lavora risucchiando al suo interno gli inquinanti presenti in mare (olio compreso) e restituendo all’ambiente acqua pulita. È azionato da una pompa e un al suo interno un sacchetto in fibre naturali, intrappola i detriti e i rifiuti marini trasportati dal flusso d’acqua. Ha bisogno dunque di elettricità per funzionare (i progettisti stimano una spese mensile di circa 20 dollari) e di un punto di appoggio per la pompa, che sia la banchina di un porto o il ponte di una nave.

 

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Quando hanno ideato Seabin, Turton e Ceglinski hanno lanciato una campagna di raccolta fondi su Indiegogo per finanziare le prime fasi del progetto. In pochissimo tempo sono riusciti a racimolare 250.000 dollari e a passare alla fase successiva: iniziare a diffondere i primi prototipi in piccole iniziative sperimentali. Il primo a dotarsi del cestino aspira rifiuti è stato il porto britannico di Portsmouth, dove è stato installato vicino alla base della squadra Land Rover Ben Ainslie Racing (BAR). Ma i due inventori hanno in programma anche altri due siti di test, uno a Helsinki, in Finlandia e un secondo a Calvià, comune spagnolo delle Baleari.

Il dispositivo – assicurano – è stato progettato affinché garantisca la sicurezza della fauna marina: la bocca del cestino è posiziona sul pelo dell’acqua in maniera da raccogliere solo l’inquinamento e i rifiuti che galleggiano in superficie. Un Seabin può rimuovere fino a 1,5 kg di spazzatura dall’acqua in un giorno ed è dotato di una capacità totale di 12 kg. Per comprarlo, tuttavia, bisognerà attendere novembre 2017.

(fonte: Rinnovabili.it)