USA, super pioppi arricchiti con probiotici bonificano i terreni

Condotto il primo esperimento su larga scala di bonifica dei siti contaminati da tricloroetilene grazie ad alberi di pioppo “fortificati”

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington, insieme ad alcune imprese, ha condotto il primo esperimento su larga scala in un sito di bonifica usando pioppi rafforzati con un probiotico per pulire le acque sotterranee contaminate da tricloroetilene, un inquinante piuttosto comune nelle aree industriali, pericoloso per gli esseri umani se ingerito con l’acqua o inalato con l’aria. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Environmental Science & Technology.

Bonificare i siti contaminati da tricloroetilene e altri inquinanti può risultare estremamente costoso usando metodi come l’escavazione o il pompaggio delle tossine dal sottosuolo. Di conseguenza, molti siti non vengono trattati. Con questo nuovo metodo, è possibile procedere alla bonifica in maniera più efficace, spesso a un costo minore.

I ricercatori hanno utilizzato il legno dei pioppi di un sito del Midwest, dove gli alberi crescono già in un suolo contaminato da tricloroetilene. Hanno triturato il legno in piccoli frammenti e isolato oltre cento differenti microbi, inserendo ogni ceppo in un contenitore con alti livelli di tricloroetilene. L’obiettivo era trovare il ceppo di microbi in grado di dissolvere in maniera efficace l’inquinante e garantire la crescita dell’albero. Gli scienziati hanno dunque sfruttato un processo naturale: alla fine hanno trovato i microbi migliori che in realtà la pianta aveva già selezionato. Il probiotico vincente è stato quello in grado di eliminare praticamente tutto il tricloroetilene.

Dopo un solo anno, gli alberi ai quali era stato inoculato il microbo erano più grandi e in salute rispetto a quelli non trattati. Dopo 3 anni, i pioppi con il probiotico erano più robusti e un campione di tre tronchi ha rivelato ridotti livelli di tricloroetilene.

Quando un albero assorbe e degrada sostanze chimiche, in genere è a spese della sua salute: il tutto ha dei riflessi evidenti come riduzione della crescita, ingiallimento delle foglie e rami secchi. Ma nei casi in cui il microbo selezionato è stato introdotto, i pioppi hanno abbattuto il tricloroetilene, diventando al contempo più robusti.

Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che i campioni di acque sotterranee mostravano livelli più bassi della tossina e la presenza maggiore di cloruri, un elemento innocuo, sottoprodotto del tricloroetilene quando questo viene degradato.

(fonti: rinnovabili.it)

Con l’asfalto le batterie al litio si caricano 20 volte più in fretta

Nello sviluppare gli anodi delle batterie al litio, i ricercatori hanno utilizzato carbonio poroso ricavato dall’asfalto. Il risultato è davvero stupefacente

Ancora un’innovazione nel settore delle batterie al litio

 

Un pizzico di asfalto può aumentare la velocità di ricarica delle batterie al litio di 10 o anche 20 volte. Nessuno lo aveva scoperto prima degli scienziati della Rice University, che hanno pubblicato la loro trovata sulla rivista ACS Nano.

Nello sviluppare gli anodi, i ricercatori hanno utilizzato anche carbonio poroso ricavato dall’asfalto, un materiale che ha mostrato una stabilità eccezionale anche dopo oltre 500 cicli di carica-scarica. Non solo, ma con una densità elevata di corrente (20 milliampere per centimetro quadro) ha dimostrato di poter funzionare egregiamente in dispositivi di carica veloce che richiedono alta densità di potenza.

Oltre ad una capacità definita «enorme», gli scienziati si fregano le mani per essere riusciti a caricare questi accumulatori in 5 minuti contro le due ore o più necessarie con altre batterie.

Mentre in un esperimento precedente avevano utilizzato un derivato dell’asfalto, la gilsonite non trattata, hanno avuto maggior successo mescolando l’asfalto con i nanoribbons di grafene (strisce con uno spessore inferiore ai 50 nanometri) e hanno ricoperto il composto con litio metallico tramite deposizione elettrochimica. A questo punto hanno combinato l’anodo con un catodo di carbonio solforato: la batteria per il test era finalmente pronta. La prova ha dato risultati stupefacenti: un’alta densità di potenza di 1.322 watt per chilogrammo e un’alta densità di energia pari a 943 wattora per chilogrammo.

Il test ha rivelato un altro vantaggio significativo: il carbonio ha attenuato la formazione di dendriti di litio. Questi depositi di materiale simile al muschio invadono l’elettrolita delle batterie e, se riescono ad estendersi abbastanza, mandano in cortocircuito l’anodo e il catodo. Simili disavventure possono causare la rottura dell’accumulatore, o peggio incendi ed esplosioni. L’aver trovato un materiale che impedisce la formazione di questo effetto collaterale rappresenta dunque una doppia vittoria per la Rice University.

 

(fonte: Rinnovabili.it)

Con il generatore termoelettrico solare la maglietta produce energia

Semplice e complesso nello stesso tempo: è così l’innovativo generatore termoelettrico solare creato dagli scienziati dell’Ulsan National Institute of Science and Technology (UNIST), in Corea del Sud. Semplice nell’utilizzo perché sfrutta il calore di scarto, da quello ambientale a quello del corpo umano, per creare elettricità. Complesso nell’elaborazione dell’idea che ha permesso al team di scienziati di raggiungere un’efficienza particolarmente elevata per questa tecnologia.

I generatori termoelettrici (TEG) sono dispositivi che funzionano sulla base del meccanismo noto come Effetto Seeback. In cosa consiste? Quando esiste una differenza di temperatura tra due conduttori elettrici o semiconduttori dissimili si produce una differenza di tensione tra di loro: riscaldando uno dei due elementi, gli elettroni passano dal lato caldo al più freddo e, se la coppia è collegata da un circuito elettrico, la corrente passa attraverso il circuito.

Nel tempo la ricerca ha indagato la possibilità di creare TEG indossabili che sfruttassero la differenza di temperatura esistente tra ambiente e corpo umano. Tuttavia, uno dei principali inconvenienti è che questo tipo di dispositivi può contare su una differenza di temperatura di solo di 1 – 4 gradi Celsius, troppo ristretta per renderli fruibili a livello civile.

Il gruppo di scienziati dell’UNIST, guidati dal professor Kyoung Jin Choi, ha risolto il problema introducendo nella struttura un assorbitore solare locale sopra un substrato in plastica. Come dice il nome stesso, l’assorbitore solare ha il compito di assorbire i raggi luminosi: è stato creato impiegando titanio e floruro di magnesio (Ti / MgF 2 ) in una struttura sottilissima, ingegnerizzata appositamenta per catturare la quantità maggiore di luce.

Ciò ha aumentato la differenza di temperatura di ben 20,9 ° C, il valore più elevato mai raggiunto da qualsiasi TEG indossabile realizzato finora. Quando esposto alla luce solare – gli scienziati lo hanno testato su vestiti e finestre – il generatore termoelettrico solare ha mostrato una tensione a circuito aperto di 55,15 mV e una potenza di uscita di 4,44 μW.

 

“Attraverso questo studio, abbiamo ottenuto una differenza di temperatura aumentata di dieci volte rispetto ai tradizionali generatori termoelettrici solari portatili”, spiega Yeon Soo Jung, ingegnere presso la UNIST. “Poiché l’uscita di un TEG è proporzionale alla radice quadrata della differenza di temperatura, è possibile aumentare significativamente l’output con l’aiuto di questa tecnologia”.

 

(fonte: Rinnovabili.it)

Australia: Calcestruzzo green dalla CO2!

Una nuova tecnologia sviluppata in Australia cattura le emissioni di CO2, il maggiore dei gas serra e le trasforma in calcestruzzo e in altro materiale da costruzione. Il processo della durata di circa un’ora, partendo da grandi bombole di anidride carbonica è stato dimostrato dalla compagnia australiana Mineral Carbonation International (MCI) nell’Università di Newcastle a nord di Sydney, dove è stato avviato uno speciale programma di ricerca. La tecnologia comporta la combinazione permanente in carbonati solidi di anidride carbonica con polvere di serpentinite, la roccia i cui minerali si trasformano nella pietra ornamentale detta serpentino.

“Abbiamo bisogno di soluzioni al cambiamento climatico. Come l’adozione delle energie rinnovabili nella produzione di energia, la nostra tecnologia mira ad aiutare a decarbonizzare industrie come cemento, acciaio e produzioni chimiche”, ha spiegato il direttore capo della MCI, Marcus Dawe.

Il processo imita, a velocità estremamente accelerata, la trasformazione naturale causata dalla pioggia e dagli altri agenti atmosferici che produce tipi comuni di rocce in milioni di anni, ha spiegato. “Questi carbonati e prodotti secondari del silicio possono essere usati in prodotti edilizi come calcestruzzo e cartongesso, creando materiali da costruzione verdi, di cui vi è una grande richiesta dal settore”, ha detto Dawe.

Il serpentino è una risorsa diffusa e disponibile prontamente, per assorbire la CO2. La sfida è di produrre i materiali in una scala sufficiente e a un prezzo più economico possibile, ha detto ancora Dawe. Il potenziale maggiore sta nei quattro miliardi di tonnellate di cemento che si produce nel mondo ogni anno, ha aggiunto.

 

(fonte: Repubblica.it)

Una lavatrice salverà il Pianeta: l’eco-invenzione di uno studente 22enne

Dylan Knight dell’Università di Nottingham Trent ha sostituito il calcestruzzo con un contenitore di plastica: il risparmio sarebbe di 45mila tonnellate di CO2 nel solo Regno Unito

 

LA LAVATRICE salverà il mondo? Se promette di ridurre le emissioni di CO2 potrebbe dare alla causa ecologica un importante contributo. È stato scoperto un trucco, semplice ma potenzialmente rivoluzionario se diffuso su larga scala, per ridurre il peso dell’elettrodomestico e renderlo green. L’idea è venuta a uno studente londinese di 22 anni, Dylan Knight dell’Università di Nottingham Trent (NTU), sviluppata come parte del suo progetto finale di studio, gestito dalla società Tochi Tech, con l’aiuto del professore di ingegneria, Amin Al-Habaibeh.

In pratica, viene sostituito il blocco di calcestruzzo, posizionato all’interno delle macchine come contrappeso, con un contenitore di plastica che viene riempito d’acqua dopo l’installazione. In questo modo, il trasporto diventa più agevole, ma soprattutto l’invenzione promette di far risparmiare 45.000 tonnellate di anidride carbonica alle sole macchine vendute nel Regno Unito ogni anno. La maggior parte delle lavatrici ha un blocco di calcestruzzo che si aggira intorno ai 25 kg, è posizionato sulla parte superiore e serve a mantenere stabile la macchina durante il ciclo di centrifuga.

La produzione e il trasporto del calcestruzzo creano emissioni di carbonio e rendono le macchine pesanti per il trasporto, aumentando così i costi del carburante. Knight, impegnato nella progettazione del prodotto, ha testato un dispositivo leggero, che pesa, invece meno di 3 chilogrammi vuoto e ha constatato che è altrettanto efficace dei blocchi di calcestruzzo quando viene riempito d’acqua. L’invenzione riduce il peso della lavatrice di un terzo. Riducendo il peso, un camion utilizzato per il trasporto di 100 kg potrebbe risparmiare circa 8.5 g di emissioni di anidride carbonica e 0.35 litri di carburante per 100 km percorsi.

“Il contenitore vuoto è lasciato inutilizzato fino all’installazione dell’apparecchio. Abbiamo scoperto che funziona bene, proprio come un contrappeso in calcestruzzo, fermando il tamburo di rotazione durante la pesante vibrazione della macchina “, ha detto Knight. “Il calcestruzzo è dannoso per l’ambiente a causa del rilascio di CO2 durante la produzione”, ha ribadito. Quindi, sostituendolo con un recipiente leggero a cui viene aggiunta dell’acqua dopo la posa della macchina, si raggiunge lo stesso obiettivo ma con meno dispendio energetico.

“Questa soluzione sostenibile non solo riduce i costi e l’energia necessari per il trasporto, ma implica anche vantaggi alla salute di chi fisicamente porta le macchine”, ha dichiarato al Guardian il professor Al-Habaibeh. Se la produzione venisse estesa a livello mondiale, si darebbero un contributo consistente agli sforzi per salvare il pianeta dalle emissioni di CO2 e rendere le nostre abitudini di consumo più green. La ricerca fa parte del programma Enabling Innovation della Nottingham Trent University, finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale, che “mira a rafforzare la coesione economica e sociale nell’Unione europea”.

 

(fonte: repubblica.it)

Rinnovabili, nelle grandi dighe arriva il fotovoltaico “galleggiante”

Inaugurato in Portogallo il primo impianto solare ospitato in un bacino idroelettrico. Ma nel resto del mondo l’alleanza tra le due fonti di energia verde ha già dato vita a progetti da record. i vantaggi? Riduzione di costi e maggiore potenza

MILANO – Si costruiscono in mezzo ai campi coltivati o sui tetti delle abitazioni e dei capannoni. Ma anche in mezzo all’acqua, in particolare nei bacini idrici delle grandi dighe. Nel resto del mondo lo fanno già, in Europa si tratta del primo caso. Ma tutto fa pensare che non sarà l’ultimo. Nel nord del Portogallo, nel parco naturale di Peneda-Geres, una zona selvaggia di montagna ai confini con la Spagna, è stato inaugurato il primo impianto a energia solare “galleggiante” del vecchio Continente. Si tratta, per ora, di 84 pannelli collegati agli impianti della diga di Alto Ragagao, che ha una potenza di 64 megawatt.

Un primo esperimento, si è detto, di dimensioni tutto sommato modeste. Altrove, invece, negli ultimi 2-3 anni sono stati realizzati impianti molto più consistenti per estensione e potenza. Il più grande impianto galleggiante al mondo è sorto in India; non a caso, visto che il colosso asiatico sta diventando la più grande potenza mondiale nel campo delle rinnovabili e sta insediando il primato della Cina. Il governo indiano vuole raggiungere i 16 gigawatt di potenza fotovoltaica per la fine del 2019 e per raggiungere l’obiettivo ha previsto di investire fino a 90 miliardi di dollari. Ecco perché si trova in India il più grande impianto solare al mondo collegato a una diga. Ma progetti simili sono stati realizzati e altri sono in corso di realizzazione anche in Brasile.

Per quale motivo vengano montati pannelli solari sulle strutture degli impianti idroelettrici o addirittura in mezzo ai bacini? Intanto per sfruttare le sinergie: le reti elettriche per il trasporto dell’energia “a valle”, così come i dispositivi per la trasformazione dell’energia sono già stati costruiti e in questo momento di ammortizzano meglio i costi di costruzione e si recupera prima l’investimento. Inoltre, l’acqua su cui poggiano i pannelli costituisce un sistema di raffreddamento naturale, evita il surriscaldamento e quindi limita le inefficienze. Inoltre, la superficie dell’acqua funziona come uno specchio e migliora l’irradiazione, aumentando la produzione di energia. In ultimo, la superficie galleggiante su cui poggia il pannello limita l’evaporazione dell’acqua nonché la proliferazione delle alghe (facendo ombra). Una classico esempio di simbiosi tecnologica.

(fonte: repubblica.it)

Wasted, Amsterdam premia il riciclo della plastica con monete speciali e sconti

700 famiglie hanno aderito a Wasted ad Amsterdam, progetto che incentiva il riciclo della plastica con sconti e monete speciali da spendere nei negozi affiliati.

Nel quartiere Noord di Amsterdam è nato Wasted, un progetto pilota che vede coinvolti singoli cittadini, aziende e negozi locali. La logica è semplice, la matrice è ambientale: favorire e ampliare il riciclo premiando questa pratica con monete verdi e sconti da utilizzare nei negozi, birrifici, bar e ristoranti del quartiere.

Per ogni sacco di plastica raccolto i cittadini che aderiscono al progetto ricevono un gettone verde come ricompensa. I gettoni si possono spendere nei negozi e nei locali della zona in modo, anche, da favorire un senso di comunità. Più di 700 famiglie a distanza dalla nascita del progetto a inizio 2015 hanno già preso parte all’iniziativa e oltre 30 commercianti accettano le preziose monete verdi realizzate, naturalmente, con materiali riciclati.

 

Come funziona Wasted

Per utilizzare Wasted è necessario iscriversi sul sito. Successivamente, a ogni iscritto viene inviato un apposito kit con delle buste di plastica etichettate con un codice Qr dentro le quali raccogliere tutti i rifiuti di plastica. Questo sistema permette agli organizzatori di calcolare il credito di monete accumulato da ogni famiglia ogni volta che vengono consegnati i sacchi.

Questi ultimi possono essere portati dalle famiglie stesse in alcuni punti di recupero oppure raccolti direttamente dagli addetti comunali. In base alla quantità di plastica consegnata vengono date delle monete verdi, i “wasted friends”, che offrono sconti ai partecipanti. I materiali plastici raccolti vengono impiegati per realizzare panchine, tavoli, mobili, parco giochi per bambini e cestini per rifiuti. L’obiettivo è incentivare le persone al riciclo, premiandole e allo stesso tempo insegnando loro a usare meno plastica. Il tutto con un senso di comunità virtuosa, in cui tutti ci “guadagnano”: cittadini, commercianti e soprattutto l’ambiente.

Wasted è nata come iniziativa nell’ambito di Cities foundation, un’organizzazione con base ad Amsterdam che si occupa di progettare soluzioni locali a problemi urbani globali attraverso processi di co-creazione. È costituita da un gruppo motivato di cittadini che lavorano quotidianamente per introdurre sistemi di circolarità nelle città attraverso l’innovazione. La diffusione ancora bassa della pratica del riciclo ad Amsterdam è ciò che ha spinto l’organizzazione a sperimentare Wasted. Pertanto la sfida è stata quella di innescare un cambio di mentalità, trasformando la concezione di raccolta differenziata da un dovere a un piacere.

Secondo un sondaggio svolto di recente tra gli aderenti al progetto Wasted, il 52 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver migliorato le proprie abitudini di raccolta differenziata e il 23 per cento di aver ridotto il consumo di plastica. “La gente comincia a rendersi conto di quanti rifiuti vengono prodotti, rimanendone impressionata”, spiega la milanese Francesca Miazzo, co-fondatrice del progetto. Solo nel 2015 il piccolo quartiere olandese di Noord è riuscito a raccogliere circa 16,5 tonnellate di rifiuti di plastica, un risultato eccellente se pensiamo che sono otto milioni le tonnellate che ogni anno finiscono in mare.

Obiettivi futuri

L’obiettivo principale rimane quello di incentivare la raccolta differenziata estendendo questa realtà anche in altri quartieri di Amsterdam o in altre città, motivando un numero sempre più elevato di cittadini e famiglie a praticare il riciclo, premiandoli e allo stesso tempo sensibilizzandoli.

Tra gli obiettivi c’è anche quello di sviluppare un progetto simile in Italia. “Stiamo digitalizzando il sistema che aprirà anche a vetro, carta e tessuti. Forse la moneta verde diventerà digitale, per essere ‘green’ al massimo”, svela Miazzo. La buona riuscita del progetto Wasted fa ben sperare in un’attenzione sempre maggiore al corretto smaltimento dei rifiuti. Introducendo un sistema che valorizzi il riciclo Wasted abbatte le abitudini insostenibili rafforzando inoltre le relazioni sociali all’interno di un quartiere e quindi accelerando il passaggio verso una società più ecologica.

 

(fonte: lifegate.it)

La ricercatrice italiana che ha scoperto il bruco mangia plastica

Federica Bertocchini è una ricercatrice di Piombino che lavora in Spagna, a Santander, all’Istituto spagnolo di biomedicina e biotecnologia della Cantabria (Csic).
Il suo studio sull’organismo mangia plastica – pubblicato inizialmente sulla rivista scientifica Current Biology – si è guadagnato le copertine delle maggiori riviste europee. Eppure, come spiega lei, si tratta di una scoperta nata per caso.

 

La passione per le api

Tutto è nato da una passione della ricercatrice: l’apicoltura. «Durante l’inverno tengo i miei alveari in casa, senza api – ha spiegato Federica Bertocchini -. Al momento di pulirli, ho notato che erano infestati di bruchi della cera (Galleria mellonella). Il fatto in sé non è sorprendente: queste larve crescono nei pannelli di cera, cibandosi di cera e miele. Pulendo i pannelli, ho messo i bruchi in un sacchetto di plastica, e dopo poco, ho visto che la borsa di plastica era piena di buchi e i bruchi erano fuggiti».
Per confermare la scoperta, la ricercatrice ha messo un centinaio di larve in un sacchetto. Dopo 12 ore, la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione estremamente rapido, rispetto a quello osservato in altri microrganismi capaci di digerire la plastica

Quali sviluppi futuri

Come fanno le larve a digerire la plastica? «Assieme ai miei colleghi Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di biochimica dell’università di Cambridge – prosegue la ricercatrice -, siamo arrivati alla conclusione che il fatto che questi insetti si cibino anche di cera possa renderli capaci di rompere il legame chimico caratteristico del polietilene, il materiale con cui sono prodotte le comuni shopper. Il legame chimico che si trova nella cera, infatti, è identico».
È plausibile immaginare che questo insetto, quindi, venga utilizzato per ridurre l’inquinamento da plastica?
«L’idea non è quella di usare il bruco della cera – dice la Bertocchini -. Si tratta, infatti, di un animale infestante per gli alveari. Di certo, questa scoperta ci aiuterà a studiare i meccanismi molecolari che sono responsabili della reazione, caratterizzare la, o le, molecole e produrle in larga scala usando le biotecnologie e studiare le condizioni di attività. A quel punto si potrebbe usare questo strumento per degradare la plastica. Ma non i bruchi».

(fonte: Rivistanatura.com)

Raffreddamento radiativo: combattere il caldo senza elettricità

I passi avanti del raffreddamento radiativo diurno

Dagli scienziati di Stanford un nuovo sistema di raffreddamento passivo che spedisce il calore in eccesso nello Spazio.

I tradizionali sistemi di raffreddamento climatico degli ambienti interni consumano circa 15% dell’elettricità prodotta a livello mondiale, rendendosi responsabili del 10% delle emissioni globali di gas serra. Questa voce è destinata a crescere in maniera esponenziale nel medio termine: si stima una domanda quasi decuplicata entro il 2050. Migliorarne l’efficienza è diventato pertanto un imperativo a cui molti ricercatori stanno cercando oggi di dare una risposta che sia efficiente ed economica nello stesso tempo. Una delle opzioni studiate negli ultimi anni è quella del raffreddamento radiativo, una strategia di raffreddamento passivo che permette di ridurre le temperature con minori consumi elettrici.

La tecnologia sfrutta il fenomeno del “Nocturnal surface cooling”, nel quale il calore viene irradiato nello spazio dalla superficie della Terra durante la notte se il cielo è senza nuvole e l’umidità è bassa.

In questo contesto si inserisce la ricerca di un gruppo di scienziati dell’Università di Stanford a Palo Alto, California. Il team ha creato dei pannelli radiativi raffreddanti con una nuova struttura ottica capace di garantire un significativo raffreddamento anche nelle ore diurne.

I nuovi moduli funzionano senza bisogno di elettricità e sono composti essenzialmente da tre elementi. Il primo è uno strato di plastica ricoperto da un rivestimento d’argento che riflette quasi tutta la luce del sole incidente. Lo strato di plastica è posto in cima al secondo componente, un tubo di rame all’interno del quale scorre acqua (proveniente dal sistema di condizionamento) che cede alla plastica il calore sottratto agli ambienti interni. Quel calore è poi irradiato all’esterno dalla plastica ad una lunghezza d’onda nella regione centrale dello spettro infrarosso. Infine, l’intero pannello è racchiuso in una custodia in plastica isolante termica che assicura quasi tutto il calore espulso provenga dall’acqua in circolazione e non dall’aria circostante.

Gli ingegneri californiani hanno testato il nuovo raffreddamento radiativo sul tetto d’un edificio del campus, dimostrando di poter abbassare la temperatura di 5 gradi Celsius.  Hanno inoltre calcolato che, in un clima di caldo secco, il loro sistema unito ad un impianto di climatizzazione potrebbe diminuire i consumi di elettricità del 21%.

“Questa ricerca – spiegano gli ingegneri – si basa su un nostro lavoro precedente con il raffreddamento radiativo ma lo porta a un livello successivo. Fornisce per la prima volta una dimostrazione tecnologica ad alta fedeltà di come si possa utilizzare questo sistema per raffreddare passivamente un fluido e, in tal modo, collegarlo con sistemi di climatizzazione per risparmiare energia elettrica”.

La ricerca è stata pubblicata ieri su Nature Energy e gli scienziati fanno già sapere d’aver formato startup, denominata SkyCool Systems a Burlingame, in California, per commercializzare la tecnologia.

 

(Fonte: Rinnovabili.it)

Dagli USA la cella fotovoltaica che sfrutta quasi tutto lo spettro

Come una torta a più strati ma dalle dimensioni millimetriche. La nuova cella fotovoltaica ad alta efficienza, creata negli Stati Uniti, dosa e incastra sapientemente i materiali con cui è realizzata per portare le sue prestazioni all’estremo. L’obiettivo è riuscire a raccogliere l’energia dell’intero spettro luminoso e il lavoro svolto da Matthew Lumb dell’Università di George Washington ci va davvero molto vicino.

Il ricercatore, assieme ad alcuni colleghi, ha progettato e costruito un prototipo di solare a concentrazione con un’efficienza del 44,5%. Il design impila minuscole celle, ognuna con un semiconduttore differente, affinché il risultato finale sia una sorta di setaccio tecnologico per i raggi luminosi. Ogni strato assorbe l’energia dei fotoni incidenti in una gamma di lunghezze d’onda differente. Nel momento in cui la luce viene fatta passare attraverso l’unità, più della metà dell’energia disponibile è convertita in elettricità. In confronto, la cella fotovoltaica tradizionale converte appena un quarto dell’energia che la colpisce.

Un nuovo materiale per una cella fotovoltaica ad alta efficienza

Per poter ampliare la regione dello spettro luminoso da sfruttare, i ricercatori hanno impiegato una famiglia di materiali basati sull’antimoniuro di gallio (GaSb), semiconduttore che si trova solitamente nelle applicazioni laser a raggi infrarossi e nei fotorivelatori. Il GaSb permette di assorbire i fotoni con lunghezze d’onda più lunghe dei tradizionali semiconduttori. Quindi, ai ricercatori è bastato impilare la micro cella in antimoniuro di gallio assieme ad altre unità fv ad alta efficienza a base di arseniuro di gallio, che catturano fotoni a lunghezze d’onda più corte.

Lo studio e l’utilizzo del fotovoltaico multi-giunzione non è una novità. Tuttavia questo approccio ha due aspetti innovativi. In primo luogo, utilizza una famiglia di materiali ancora poco esplorata nel settore, quale il GaSb. Inoltre, la procedura di impilamento utilizza una tecnica nota come stampa per trasferimento, che consente l’assemblaggio tridimensionale di questi piccoli dispositivi con un elevato grado di precisione.

 

Realizzare questo tipo di cella fotovoltaica, avvertono gli scienziati, è molto costoso, tuttavia è importante mostrare il punto più alto di quello che è possibile ottenere in termini di efficienza. Nonostante i costi attuali dei materiali coinvolti, la tecnica utilizzata per creare le celle è davvero promettente.

 

(Fonte: Rinnovabili.it)